sabato 16 dicembre 2023



 Vivere dentro un paradosso


Il documentario “Kosovo vs Kosovo” di Valeria Bassan e Andrea Legni racconta cosa vuol dire vivere dentro un’enclave, costruzione artificiale e tragicomica nata all’interno di uno dei tanti paradossi nazionalisti che si vanno espandendo in Europa. All’origine del nuovo romanzo della scrittrice di origine bosniaca Elvira Mujčić, “La buona condotta”.



“Nel cortile dinanzi alla casa senza intonaco due bambine si tiravano i capelli con una violenza tale da far piegare le loro testoline pressoché a terra.

“Molla”, sibilavano all’unisono.

“Cosa succede qua? Chi ha iniziato?”, gridò una donna dalla porta di casa.

“Lei”, esclamarono entrambe.

La donna si avvicinò, rifilò una sberla a ciascuna e spedì una in un angolo e l’altra in quello opposto. Strisciando con fermezza un piede sull’erba secca disegnò un confine appena visibile.

“Ora giocherete da sole”, disse, piazzò a terra la pentola che teneva tra le mani, agguantò una sedia e si sedette esattamente sulla linea tracciata a fare da vedetta.

“Tanto io con lei non ci voglio giocare mai più”.

“Mamma, mamma, dille di andare a casa sua”.

La donna si portò in grembo la pentola e, senza badare a loro, si mise a pelare. Le due attaccabrighe si girarono di spalle, con broncio risentito iniziarono a fare torte di fango senza guardarsi.

Non resistettero a lungo.

“Io ho fatto la torta a forma di fiore e tu no”.

“Non è vero, non ci credo!”.

“Tu come l’hai fatta?”.

“Non te lo dico”.

“Mamma, mamma, la mandi via?”.

La donna continuò a pelare le patate con una dedizione che raramente si riserva a quest’attività.

“Ti faccio vedere la mia torta, se tu prima mi fai vedere la tua”.

La bambina dai capelli corti prese il suo miscuglio molle a forma di stella e si incamminò verso l’amica.

“Ehi! Ehi! Cosa ho detto? Torna indietro”, si levò la voce della donna, mentre la bambina varcava il confine del territorio assegnatole.

“Voglio solo mostrarle la mia torta”, sussurrò sgranando gli occhi e fingendo innocenza.

“Ho detto di no”.

“Mamma, dai, ti prego, voglio solo vedere come l’ha fatta”, implorò l’altra bambina.

“Finite sempre per picchiarvi”.

“No, non lo faremo, giuro, giuro”, gridarono all’unisono.

La donna sospirò, annuì e si diresse verso casa, lasciandosi dietro la sedia vuota a fare da guardia alla frontiera.

Le bambine corsero l’una verso l’altra, pronte a confabulare come pasticcere esperte al cospetto delle loro torte di terriccio. Ripresero ad inseguirsi per il giardino e c’era da scommetterci che nel giro di poco sarebbero finite a tirarsi i capelli di nuovo.

Miroslav scosse la testa e si spostò dalla finestra: la fotografia perfetta di questo paese. E se i confini li tracciassimo unicamente per poter desiderare l’altro?”.



Con questo inizio incredibilmente significativo Elvira Mujčić, scrittrice di origine bosniaca, apre il suo ultimo romanzo, “La buona condotta”, che racconta la storia di Miroslav, un sindaco di un piccolo paese del Kosovo, eletto con i voti dalla maggioranza sia dei cittadini di origine serba, che da quelli di origine albanese che si vede affiancare da Belgrado, che non riconosce le istituzioni kosovare, un altro sindaco serbo, ma che non ha mai vissuto in quella piccola enclave. L’origine della storia paradossale raccontata nel romanzo risiede però in un documentario che due registi italiani, Valerio Bassan e Andrea Legni, hanno girato nel 2012 in Kosovo, intitolato per l’appunto “Kosovo vs Kosovo”. All’interno del documentario, indipendente e autoprodotto, girato in alcune enclaves serbe all’interno del Kosovo a maggioranza albanese, fra le altre si racconta anche la vicenda tragicomica dei due sindaci di Krokot, un paese non lontano dal confine con la Macedonia, uno eletto secondo le regole del Kosovo, e un altro eletto secondo le regole di Belgrado. Ma cosa vuol dire vivere dentro un’enclave? Se andiamo a cercare il termine sul dizionario troviamo al seguente definizione: “Territorio completamente chiuso entro i confini di uno stato diverso da quello cui politicamente o linguisticamente appartiene”. Ed è esattamente quello che accade ai territori abitati dalle minoranze serbe all’interno del Kosovo albanese, resosi unilateralmente indipendente nel 2008, ma riconosciuto ancora da pochi altri paesi al mondo, dopo un conflitto nato all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso con le autorità jugoslave e sviluppatosi in varie fasi, fra le quali la più cruenta nel 1999, quando, in seguito alle repressioni attuate da esercito e paramilitari serbi contro gli albanesi, ci fu l’intervento militare della NATO che portò ad una separazione di fatto fra le due componenti etniche del Kosovo, quella albanese e quella serba. Oggi in Kosovo, oltre alla zona a nord, a maggioranza serba e di fatto unita alla madre patria, esistono circa 240 enclave serbe all’interno del territorio kosovaro, con effetti istituzionali ed esistenziali paradossali. 



“Le zone abitate dai serbi all’interno del Kosovo formano un vero e proprio Stato dentro lo Stato” - affermano gli autori del documentario - “Piccole enclave monoetniche sulle quali il governo di Pristina non ha alcuna autorità. Gli abitanti di queste aree votano sindaci riconosciuti solo da loro stessi, utilizzano una propria moneta, hanno infrastrutture, scuole, ospedali gestiti direttamente da Belgrado. Ma vivono senza libertà di movimento e senza lavoro, evitando di addentrarsi nelle città albanesi per paura di subire aggressioni, Una situazione che ha spinto oltre duecentomila serbi a lasciare il Kosovo, una realtà dimenticata dai media occidentali”. Il documentario di Bassan e Legni attraversa queste enclaves, questi piccoli paesi rurali, queste realtà periferiche aggrappate alla propria storia, al proprio sentimento nazionale, mentre i paesaggi che scorrono davanti alle telecamere dei due cineasti raccontano una realtà fatta di povertà, di case distrutte e abbandonate, di vite vissute nella paura di ciò che si ha intorno, di giovani senza prospettiva e senza lavoro che sognano solo di fuggire da questi luoghi contrassegnati da bandiere serbe, targhe serbe, negozi e insegne in cirillico e che senza il sostegno del governo di Belgrado rischierebbero di scomparire per sempre. Emblematico poi il racconto quando si concentra sulla città di Mitrovica, nel Kosovo del nord, una città divisa in due dal fiume Ibar e da un ponte presidiato dalle forze dell’ONU e che divide la comunità albanese a sud da quella serba a nord. Una specie di Berlino dei Balcani, con un senso tristissimo di deja vu che rimanda ad un’epoca, quella della Guerra Fredda, che si pensava di aver archiviato per sempre, almeno in Europa, ma che così non è.



Kosovo vs Kosovo” non fa sconti nemmeno alla cooperazione internazionale, corresponsabile del disastro economico e sociale del Kosovo. “La cooperazione ha speso tanti miliardi per assistenza, cibo, case, ma non per ricostruire le strutture. A Pec c’era una fabbrica che riforniva di birra tutta la Jugoslavia. Ora ha cambiato nome, si chiama Peja, in albanese, ci lavorano solo 50 operai dove prima ce n’erano 600. E così la fabbrica di biciclette e quella delle componenti della Zastava, l’auto jugoslava, non esistono più. La disoccupazione è al 70% e fra i serbi è ancora più alta”. Un disastro in cui si sono inserite le mafie che qui prosperano con i loro traffici illeciti che attraversano tutta l’Europa. Quello che si intuisce da questo documentario così poco conosciuto su una realtà per lo più ignorata dal resto d’Europa è che questa situazione non riguarda solo il Kosovo e sintomi micro-nazionalistici sono ben presenti in tutto il nostro continente rappresentando un rischio per la convivenza civile dei popoli e per la democrazia. Si tratta di un’esistenza paradossale, come racconta un cittadino serbo nel finale del documentario, una vita divisa in due, due identità, due carte di identità, due comuni, due sindaci, due di tutto e nessuna prospettiva realistica di un futuro condiviso mentre tutto intorno sembra degradarsi irreversibilmente. Una realtà immobile che nell’esaltazione della propria appartenenza nazionale nasconde una inconfessata paura dell’altro. 



“Chiusi a chiave in pochi chilometri quadrati si perde la capacità di porsi domande, di riflettere su sé stessi e la propria condizione. Sei chiuso lì, non vai da nessuna parte e ti sembra normale che sia così, ti dimentichi di domandarti se esiste un’altra maniera di vivere, non sai nulla del mondo e non sapendo nulla, non ti chiedi nulla. E avanti così, non se ne esce” (da “
La buona condotta” di Elvira Mujčić, Crocetti Editore, 2023).



Marcello Cella

Kosovo versus Kosovo

di Valerio Bassan e Andrea Legni

Italia, 2012

Durata. 52’

Web: 

https://openddb.it/film/kosovo-versus-kosovo/


https://www.youtube.com/watch?v=JrdhlyVPEsA&t=106s


https://www.facebook.com/KosovoVersusKosovo/?locale=it_IT


La buona condotta di Elvira Mujčić

https://www.crocettieditore.it/narrativa/la-buona-condotta/




 



L’amore ai tempi del noir

“Unlucky to love you”, il nuovo film di Mauro John Capece


Un uomo solitario ricorda la sua vita stropicciata, il suo amore sfortunato per la bella ballerina Chantal, il suo errore fatale nell’essere caduto nella tela di ragno di una affascinante dark lady, Lucrezia, il rimorso che lo insegue per un crimine mai commesso, sulle arie di un nostalgico blues dall’evocativo titolo di “Maybe”, “forse”, in compagnia di una bottiglia di whisky, delle sue cuffie da dj, di un soprammobile a forma di scheletro umano e di un ramarro, mentre fuori dalla finestra infuria un temporale notturno che non preannuncia niente di buono. Questi sono gli ingredienti così materici, evocativi e spirituali al tempo stesso del nuovo film di Mauro John Capece, “Unlucky to love you”, un noir che ripercorre consapevolmente gli schemi narrativi e lo stile dei grandi film noir americani degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo corso, quelli, per intenderci, come i film di un regista marginale e da culto come Edgar G. Ulmer, a cui il film è dedicato, B Movie girati con pochi mezzi, ma così densi di significati esistenziali e spesso anche sociali, seppur in modo non direttamente percepibile dagli spettatori dell’epoca. Un cinema fatto di ombre, di personaggi ambigui, di luoghi mai perfettamente illuminati dove bene e male, vita e morte si incrociano senza che l’uno prevalga mai totalmente sull’altro, persi in un dilemma morale perturbante per gli spettatori. Un cinema fatto nei bassifondi di Hollywood che evita gli happy end tipici di quel cinema industriale per lasciare gli spettatori in balia di dubbi e domande senza risposta, di riflessioni sul senso del vivere che gli umani forse si portano dietro da sempre. 



I registi dei classici film noir non rassicurano mai gli spettatori (e spesso nemmeno i produttori), si immergono nei luoghi meno frequentati dalla narrazione mainstream per sporcarsi le mani con la sofferenza, il dolore, le delusioni, le illusioni perdute, il crimine, il male di cui è fatta l’altra faccia dell’essere umano senza diventare mai un cinema pedissequamente realistico o di denuncia tout court. Forse anche per questo posizionarsi fra gli interstizi meno conosciuti della vita, il noir è stato schematicamente collocato alternativamente dal punto di vista ideologico a destra o a sinistra. Troppo sfuggente, il cinema noir racconta le sue storie senza farne l’emblema di una visione chiara e strutturata della vita. Le storie del cinema noir possono essere interpretate in molti modi diversi, si prestano a letture ondivaghe e mai definitive. La vita dei suoi personaggi è come ci suggerisce la superficie delle storie che racconta oppure no? Potrebbe essere diversa? Maybe. Forse.



Anche Mauro John Capece, con “Unlucky to love you”, si inserisce consapevolmente in questo genere, interpretandolo però secondo il suo stile, senza perdere nulla della sua creatività di regista più propenso ad un “cinema della riflessione” che ad un “cinema della sensazione”. E sicuramente “Unlucky to love you” continua il percorso della sua ricerca narrativa e stilistica, assistito da un nutrito “clan” di collaboratori in perfetta sintonia con la ricerca filmica del regista abruzzese. A cominciare dalla bellezza ambigua e dalle molte sfumature di una attrice come Corinna Coroneo, autrice anche del soggetto e della sceneggiatura, da sempre musa ispiratrice e presenza insostituibile nell’universo poetico di Capece, così ricco di ambiguità e deragliamenti narrativi a cui Corinna sa dare corpo e anima come pochi. Inoltre Capece non è nuovo a questo lavoro di ricerca sui generi, perchè nella sua filmografia sono ben presenti riferimenti a generi come l’horror, il thriller o i film di denuncia sociale, ma sempre reinterpretati secondo la personalissima visione del regista che mai si limita ad imitare gli stili e le strutture narrative dei generi a cui di volta in volta fa riferimento. Spesso anche all’interno dello stesso film. E “Unlucky to love you” non fa eccezione. Soprattutto quando sceglie di spostarsi a lato della narrazione principale, con due intermezzi, un epilogo ed un prologo, che raccontano la vita tormentata di alcuni personaggi non proprio centrali nell’economia narrativa del film, come la ballerina Chantal, il maggiordomo e la governante della villa dove vivono la misteriosa dark lady Lucrezia ed il suo consorte, lo stimatissimo e ordinatissimo dr. Ricciardi. 



Inutile dire che, come da copione, l’arruffato dj Russell, persa la sua musa Chantal, partita alla rincorsa di impossibili sogni di successo a Londra, finirà nella perfida tela di ragno ordita dalla affascinante Lucrezia, anche lui all’affannoso inseguimento di una seconda chance, morale, sentimentale e materiale dall’esito infausto. A differenza però dello stile del noir classico a cui fa riferimento il regista abruzzese, l’ambiguità morale del suo film non si esplica in un gioco di luci e ombre espressioniste in cui la visione delle cose che sembrava chiara all’inizio del film si complica sempre più con l’andare del tempo, ma nell’esatto contrario, in un eccesso di luci, in una simmetria innaturale delle immagini, in superfici che appaiono indecifrabili proprio a causa in un eccesso di luminosità che cancella le ombre e ne rende indistinguibili i contorni. Come nei film precedenti di Capece, gli spazi vuoti in cui si muovono i personaggi, la loro simmetria inquietante, accentuano il senso della loro solitudine e della sconfitta delle loro aspettative esistenziali. E’ come se continuamente i personaggi di Capece ripercorressero le loro vite e si chiedessero: come avrebbe potuto essere la mia vita se gli eventi che mi hanno coinvolto avessero assunto un significato diverso? Sarebbe stata diversa? Maybe. Forse.



Marcello Cella



Intervista con Mauro John Capece


- Come è nato il progetto di “Unlucky to love you”?

E’ nato da un’analisi che abbiamo fatto in America dove i nostri film sono sempre molto visti. Abbiamo pensato quindi di girare un film in inglese prendendo il noir come genere, l’indie noir nello specifico che è un genere che si è sviluppato in America negli anni Quaranta-Cinquanta ed era prevalentemente fatto da registi disperati che in buona sostanza per sbarcare il lunario facevano cinque o sei film all’anno. Quindi mi piaceva molto questo parallelismo con i disperati americani degli anni Quaranta-Cinquanta con un analogo personaggio italio-americano. Ho voluto fare un film stile Edgar G. Ulmer e ho chiesto una sceneggiatura di questo tipo. Il film è partito così. Abbiamo trovato una produzione americana che ci appoggiava ed è partito il progetto.

  • Quindi nella storia del dj Russell è possibile vedere in filigrana anche la vicenda umana di questi registi che spesso hanno vissuto e sono morti in povertà?

Assolutamente si. Lui è solo e intrappolato così come questi tecnici, attrezzisti come Ulmer o scenografi o altro, che si sono trovati intrappolati in America, stranieri che vivevano lì. Allo stesso modo Russell è intrappolato nella sua vita in Italia e non può tornare in America perchè non ha i soldi. 

  • Uno degli elementi che rendono molto suggestivo questo film è la musica, con questo blues, questo jazz che accompagna la triste storia del dj…
  • Nel mio cinema la musica è importantissima. Spesso molti pezzi vengono realizzati prima delle riprese perchè danno il mood. Per esempio, in questo caso avevamo dei pezzi che stavano sul balletto ed erano stati realizzati prima. Poi una parte delle musiche sono originali americani degli anni Trenta e un’altra parte è stata composta appositamente per il film. Quindi Gianluigi Antonelli ha composto delle musiche con delle tonalità relativamente più contemporanee. Mentre India Czajkowska ha fatto delle parti orchestrali e questa fusione è stata bellissima perchè da una parte ci sono le musiche originali di quegli anni, dall’altra una composizione più orchestrale, e poi una composizione un po’ più contemporanea.

  • Le musiche spesso sembrano caratterizzare anche i personaggi. Nel senso che quando c’è in scena il dj lo accompagna sempre questa musica blues un po’ nostalgica, mentre ricordo che la prima volta in cui Lucrezia va al locale da sola, in auto ascolta una specie di pop dance elettronico.

Esatto. Questo sottolinea il contrasto che c’è all’interno del mondo del locale “I love you”, dove si fanno le stesse cose che si facevano in quel tipo di locali negli anni Quaranta, quindi jazz, ballerina introdotta da un presentatore e socialità. L’intento era quello di creare un luogo magico, un po’ fuori dal tempo. Poi quando Chantal va via sfiorisce. Mentre Lucrezia ascolta della musica normalissima, radiofonica, contemporanea.

  • Un altro elemento che rende suggestivo il tuo film è il riferimento visivo ai generi pittorici di quegli anni, mi viene sempre in mente l’opera di Edward Hopper…

Volevo creare sicuramente una fotografia molto pulita, da un lato espressionista, con ombre pesanti, ecc., dall’altro molto simmetrica. Io non amo essere trascurato dal punto di vista fotografico e in questo caso ho utilizzato delle ottiche vintage lenses che potrebbero risalire orientativamente a quel periodo per avere un’immagine un po’ vintage e non volevo il “vissuto” in questo film. Volevo creare un’immagine come i film dell’epoca, in cui gli ambienti sembravano un po’ finti, dei set. Perciò ho trovato a Nardò una location che aveva quel tipo di caratteristiche, una villa che non era molto sfarzosa ma molto bella a livello estetico…


-…in effetti ricorda molto certe case vittoriane dei quadri di Edward Hopper…Un’altra cosa che risalta sempre in questo come negli altri tuoi film è il ruolo del denaro…


Il denaro nella società contemporanea…c’è sicuramente una critica velata al “compra tutto”, ma nello stesso tempo il “compra tutto” non può comprare l’arte che non si prostituisce. Perchè se l’arte è pura non può essere acquistata dal denaro. Nei miei film ci sono spesso dei soggetti che si prostituiscono a livello artistico o decidono di non farlo. Il denaro è un anello di congiunzione. Quindi ho mandato Chantal, come da sceneggiatura di Corinna Coroneo, a prostituirsi all’estero, con la promessa di un lavoro, alla Royal Albert Hall di Londra, e, allo stesso modo, Russell sta lavorando in un piccolo club ma stenta. Poi Russell decide di essere complice in un crimine appunto per denaro. E quindi il denaro è un elemento importante…che rende le nostre vite più infelici fondamentalmente. Vivremmo tutti meglio senza denaro, questo è poco ma sicuro…



  • Un’altra cosa di cui vorrei che mi parlassi sono le figure femminili. In questo film ce ne sono tre con caratteristiche completamente diverse. Ma anche negli altri tuoi film esse sono presenze forti, ma ambigue nello stesso tempo. Cosa ci puoi dire in proposito?

Si, nel film ci sono tre figure femminili. C’è Lucrezia, interpretata da Corinna Coroneo, che è una donna che si presenta come fragile e abusata e in realtà è una persona machiavellica e malvagia. E chiaramente mi piace molto vedere Corinna in questi ruoli un po’ complessi, in cui c’è uno switch perchè lei è anche brava nel rappresentarli, nel renderli palesi al pubblico. Poi c’è Chantal che è un bellissimo personaggio, costretta ad andarsene all’estero e si ritrova dopo molti anni prostituta e ancora innamorata di Russell. E questa è la fine che fanno gli artisti oggi, che partono con i migliori principi e poi finiscono per andare a fare un lavoro qualsiasi. Quando l’arte dovrebbe essere il lavoro più bello del mondo. E poi c’è un personaggio che mi piace molto, che è quello della governante, una finta sordomuta, una homeless che per opportunismo decide di rimanere lì. Anche Mara D’Alessandro ha fatto una bellissima performance secondo me. 

  • Parlando dei tuoi personaggi mi viene in mente il tema del doppio. Addirittura qui c’è un personaggio che ha due ruoli all’interno del film…

Sicuramente Randall è un attore che mi piace molto e io non riesco a lavorare con attori che non mi piacciono, sotto ogni punto di vista. Nel senso che un attore mi deve piacere come persona, per come recita, fisicamente. E la bellezza non è necessariamente perfezione perchè tutto può essere bello e cinematografico in un film. Lui era molto giusto come personaggio e gli ho dato la possibilità di fare quello che gli sarebbe piaciuto fare, e cioè interpretare due ruoli. La sceneggiatura lo prevedeva e quindi è stato molto interessante e sfidante lavorare con lo stesso attore nella stessa stanza. E’ regia pura quando succedono queste cose, quindi è bello. Per un attore è una cosa sempre molto sfidante fare due ruoli in un film, e quindi ci ho voluto provare. Penso che sia abbastanza riuscito. E’ stato bravo Randall Paul a fare tutte e due le cose. Però era bello vedere queste due figure completamente diverse, uno ricco e l’altro povero, uno artista e l’altro dottore.


  • Fra parentesi mi incuriosisce anche come scegli i tuoi attori, nel senso che, a parte Corinna Coroneo, spesso nella vita quotidiana fanno tutt’altro, come Fiorella Franco, o non hanno fatto solo gli attori, come Randal Paul…

E’ vero, non sono sempre attori di professione anche se una base di attori di professione ce la metto sempre perchè è fondamentale. E mi piace lavorare sempre con le stesse persone per creare un piccolo universo, per prima cosa perchè sai cosa aspettarti ed essendo il lavoro di produzione spesso difficile, in questo modo diventa più fluido. E poi mi piace lavorare sempre con le stesse persone perchè, piccola nota polemica, me lo posso permettere, almeno finché il mio cinema rimane puro, perchè faccio le cose che voglio fare. Nel momento in cui dipendi da un broadcaster o dal mercato non puoi scegliere nessun attore. Quindi è bello poter lavorare con le stesse persone. E’ un regalo che faccio a loro e che loro fanno a me dandomi tanta fiducia.

  • A proposito di indipendenza, tu puoi essere considerato un regista indipendente. Ma cosa significa, oggi, per te, essere un resta indipendente? 

Teoricamente indipendenza in questo settore vuol dire non dipendere da un broadcaster. Quindi in Italia questo significa non dipendere dalla RAI o da Netflix, non avere i loro contributi in produzione. Quindi tutte le produzioni che non hanno un contributo da loro sono considerate indipendenti. Ma nel mio caso io sto cercando di fare un cinema libero, libero anche nei contenuti. Sto cercando di portare avanti un discorso che mi ha portato, dopo la trilogia della riflessione alla trilogia della sensazione, ma voglio essere libero nel fare questa trilogia. In mezzo non ci voglio mettere un film che non c’entra niente con questa cosa e questa è una scelta che non sempre ti puoi permettere. Di sicuro non potrò farlo in eterno, ma io spero di poterlo fare anche in seguito… Per come si delinea il cinema nel mondo, c’è sempre meno libertà. E’ chiaro che stiamo vedendo tutti i film uguali, tutti politicamente corretti, che vanno tutti in una stessa direzione. Tutto funziona per mode. Tutto questo non rende gli artisti più liberi. E’ improbabile oggi che nasca un Tarkovskij o un Truffaut. E’ difficile essere un autore oggi. 


  • Ho notato che spesso nei tuo film giochi spesso con i generi. C’è l’horror, il thriller, il noir in questo caso, ma spesso anche all’interno dello stesso film tu cambi registro e genere di riferimento. Per esempio, rimanendo ad “Unlucky to love you”, ci sono delle situazioni che possono essere ricondotte all’horror o al gotico, all’interno di un film che è dichiaratamente noir…

Mi piace molto giocare con i generi, perchè è vero che mi piacciono i film d’autore, i film liberi, ma amo molto anche i generi. In questo caso ho voluto cimentarmi con il noir e quindi dovevo essere un po’ specifico. Per cui abbiamo lavorato utilizzando l’attrezzatura dell’epoca, carrelli, movimenti di macchina, tagli di inquadratura perchè c’era questa ostruzione che mi ero imposto affrontando il genere noir. E chiaramente questo condizionamento c’era soprattutto con quei personaggi un po’ gotici che richiedevano una fotografia un po’ espressionista, anche con uno stile di recitazione che, essendo un omaggio, può apparire anche un po’ ingenua, non sbagliata. Era così in quell’epoca ed io ho cercato quindi di far recitare gli attori secondo quello stile. Non serviva una recitazione troppo sofisticata per questo tipo di film. E’ interessante anche per il pubblico che non sa mai cosa aspettarsi. Anch’io quando vedo un film mi piace sperimentare questa condizione. Magari prima mi annoio, poi il film accelera, riparte. Il film non deve essere statico, deve essere materia dinamica.


  • Una cosa meno evidente nel tuo cinema è l’ironia. Spesso i tuoi personaggi fanno emergere questo elemento psicologico anche all’interno delle situazioni più drammatiche…

Si, in certi casi mi piace caricare molto i personaggi. Di solito cerco di rendere più fluidi i protagonisti e poi cerco di dare colore al film con l’antagonista e con i personaggi dei ruoli secondari. E’ una cosa che mi piace molto fare e che ritrovo spesso anche nelle graphic novel, nei fumetti di una certa epoca storica. In questo caso mi sono divertito molto con i personaggi nel prologo e nell’epilogo, che non erano i personaggi principali del film e li ho coloriti un bel po’. Anche la fine che fa Chantal che si ritrova sola a bere, senza parrucca, a pensare al suo amore che se n’è andato via è drammatico, ma, se vogliamo, allo stesso tempo ironico…


-…anche l’immagine di lei con il cliente, dopo la consumazione del sesso, con quell’immagine fissa che li ritrae silenti mi ha ricordato certe inquadrature di Kaurismaki in cui i personaggi pur nella loro immobilità risultano un po’ ridicoli…

…oppure i fagioli e il peto del maggiordomo…Erano due storie completamente svincolate anche dalla narrazione tradizionale del film…


  • C’è sempre una specie di lotta di classe nei tuoi film…

Assolutamente si. Anche prima quando hai accennato all’elemento dei soldi, quando faccio vedere il passato dei personaggi e il futuro di Chantal sono molto diretto. In questo film non potevo essere politicamente molto scorretto perchè i film noir degli anni Quaranta-Cinquanta erano ingenui quindi dovevo rispettarne un po’ lo stile per cui solo traslatamene potevo mandare dei messaggi d’autore. Mentre negli intermezzi ho spinto di più in questo senso. Quindi negli intermezzi in cui c’è il passato del maggiordomo e della governante, in cui loro vengono presi a lavorare per soldi quando erano degli homeless e quello in cui c’è il futuro di Chantal che non è riuscita a fare successo a Londra ed è diventata una prostituta da strada. E lì c’è una citazione molto chiara a “La scultura”, perchè ho girato nelle stesse location. Era una cosa voluta anche se non si nota a un primo sguardo. 

  • A proposito di personaggi che usano la propria creatività per rapportarsi al mondo, qui c’è un dj che ha questo rapporto dialettico fra creatività e realtà che si trova spesso nei tuoi personaggi. 

Anche qui c’è un personaggio che vive di creatività e pertanto non ha accumulato la giusta somma di denaro per poter decidere il proprio futuro. Mi piace molto questo tema molto politico, dell’arte manipolata, dell’arte comprata, dell’arte usata. Si, è un tema che mi piace.

  • Un altro tema importante è quello della seduzione che compare spesso anche negli altri tuoi film ed emerge anche in modo drammatico…

Si, è vero. Ci sono spesso delle donne, delle femmes fatale, delle situazioni in cui c’è una sensualità, ci tengo molto…in questo caso ero molto censurato dal tema. Perchè se andiamo a vedere i noir la donna è sempre variamente idealizzata. Il protagonista è sempre un uomo. Non ci sono noir in cui la donna è protagonista, parlo degli indie noir. Non potevo scendere su un piano troppo erotico. Però si tratta delle di donne appassionanti, particolari.

  • In questo film c’è, come spesso nel tuo cinema, una dialettica fra verità e menzogna che è un tema molto attuale, ma rimanda anche ad un tema classico dei noir che giocavano molto su questa ambiguità diventando indirettamente anche politici in quanto critici di un certo stile di vita e di un certo modo di vedere le cose…

Sicuramente anche qui i temi di fondo sono sempre quelli. I soldi, come hai detto tu, sono centrali e a volte indirizzano i personaggi verso scelte di vita sbagliate, il fatto che gli amori vengono distrutti dai soldi o che la creatività viene distrutta da questo meccanismo è emblematico. Quindi da un lato i soldi sono necessari e dall’altro sono il motivo per cui compiamo scelte sbagliate. Questo film è meno politico degli altri perchè avevo un condizionamento importante, quello di dover fare un film noir, classico, il secondo della mia trilogia della sensazione, e poi anche la piattaforma a cui era destinato, Amazon Prime, comportava una sorta di censura artistica, che poi  tutti gli artisti stanno subendo.


  • Quanto pesa il condizionamento delle piattaforme?

Sicuramente oggi ci sono tanti problemi nel produrre perchè i film devono essere tutti politicamente corretti secondo determinate situazioni. Ci sono le pari opportunità, le categorie protette, ecc…. dobbiamo essere attenti a molte cose per cui la libertà degli artisti subisce una limitazione. Ma non ce ne sarebbe nemmeno al cinema per come è strutturato il cinema oggi. Tu pensa che oggi i film di Bergman sicuramente non uscirebbero nelle sale.

  • Dal punto di vista distributivo che percorso seguirà questo film? 

Questo film uscirà sicuramente nelle sale e nelle piattaforme tv canadesi. Poi, per quando riguarda il resto del mondo, a parte i festival in cui è già stato in parte presentato, in Italia e negli USA uscirà su Amazon Prime Video. 

  • Come mai i canadesi?

In Canada il film ha potuto fare un accordo molto favorevole per cui potrà uscire anche nelle sale. Poi, essendo un film girato in lingua inglese, sicuramente potrà essere facilmente visto nei paesi anglofoni.

  • Come tutti i noir, anche il tuo film finisce un po’ tragicamente, gli amori in qualche modo falliscono. Qual’è la tua concezione dell’amore che esce da questo come dagli altri tuoi film?

Nei miei film tende ad essere un elemento positivo, ma non troppo, sinceramente. L’amore è il motore del mondo. Anch’io ho fatto delle scelte per amore e queste scelte spesso non sono andate per il verso giusto come sempre capita. Sul finale c’è questa sensazione…sto un po’ soffrendo in questa trilogia della sensazione, per la verità, perchè io amo un cinema libero, come avrai certamente capito. Però nel finale di questo film ho messo una riflessione che fa il protagonista, Russell, che secondo me è molto interessante, quando lui dice alla fine che non gliene frega niente di niente, quando lo arrestano. E’ una cosa un po’ anti-sistema…

  • Un magnifico perdente…

…esatto, un perdente consapevole…


  • Che tipo di lavoro hai fatto con gli attori, in particolare con Randall Paul, perchè lui fa due ruoli completamente diversi…

Si, inizialmente c’era questa cosa del parrucchino. Anche questo deriva un po’ dai film noir che erano un po’ ingenui e non c’era una verosimiglianza pazzesca. Quindi la mia scelta è stata quella di fare un parrucchino un po’ alla cantante rock. Anche sul look abbiamo lavorato molto, abbiamo fatto molti acquisti, molte prove sul look di questi due personaggi che dovevano essere molto diversi, anche se uno, quello del dottore, lo conosciamo pochissimo perchè in realtà sappiamo di lui delle cose false, che era un marito cattivo. Sicuramente era una persona superprecisa però diciamo che per il dottore Ricciardi abbiamo lasciato il look normale di Randall Paul, mentre sull’altro abbiamo giocato.

  • Quanto si rispecchiano i due personaggi del dj e di Lucrezia secondo te?

In parte i due sono simili perchè tutti e due in fondo vogliono la stessa cosa, però il livello di perversione è diverso. Chiaramente Lucrezia è più doppia di Russell. Russell è più ingenuo. Quindi fondamentalmente ci casca. Come in tutti i noir, quelli con Humphrey Bogart per esempio, tutti i personaggi fanno un errore. L’errore è una cosa tipica dei noir…

  • …la dark lady…

…si, esattamente…


  • Il noir lavora molto sul contrasto fra luci e ombre, che poi è la l’immagine di un contrasto morale, mentre tu lavori invece molto sulle superfici, sull’eccesso di luce, quindi fai un’operazione un po’ diversa…

Nel noir l’ombra si vede, è in campo. La fotografia è un po’ espressionista e mi piace molto e la sceglierei indipendentemente dal genere. Per me l’espressionismo come idea di fotografia è molto interessante, uno stile che è nato con l’uso delle luci artificiali sul set. Così è nata l’ombra. E l’ombra può essere molto narrativa. Però la mia fotografia è qualcos’altro. Nel senso che mi piace molto anche padroneggiare l’uso delle superfici, del colore, degli ambienti. Per cui è sicuramente molto diversa. Volevo anche rimanere fedele al mio stile utilizzando le immagini che ho sempre fatto.

  • Dal punto di vista della scrittura, la sceneggiatura è molto dettagliata o è qualcosa che si modifica come work in progress? 

Era molto dettagliata. avevo chiesto a Corinna Coroneo di scrivere un noir tipico con la dark lady, il crimine, l’uomo deluso da una donna che l’ha tradito. E così è nato “Unlucky to love you”. Poi però cosa succedeva? Che il noir durava 64 minuti e con quella durata non poteva essere distribuito come film. A questo punto c’è stata un’idea che ha cambiato molto il film, in meglio secondo me, che è stata quella di aggiungere un prologo e un epilogo focalizzati su due personaggi che non sono centrali nella storia. Sono due cortometraggi di riflessione all’interno di un film che ha una narrazione moto lineare e ben precisa. 

  • Tu usi spesso questi intermezzi nei tuoi film. Che significato hanno all’interno del tuo modo di raccontare?

L’intermezzo mi piace molto perchè prima di tutto rilassa lo spettatore. Noi sappiamo che tutti i film soffrono in genere nel periodo compreso fra l’ora e l’ora e mezzo. E non a caso spesso nei cinema ci mettono l’intervallo così ti vendono anche i pop corn. La mia idea è nata proprio quando i miei film dovevano uscire al cinema e nel momento dell’intervallo c’era l’intermezzo. Mi piace molto questa idea perchè in questo modo lo spettatore può respirare e ripartire con il film dopo un attimo di riflessione. Quindi mi piace staccare un po’ dalla narrazione, anche per far sedimentare la storia e anche per far tenere alta l’attenzione, perchè sono conscio del fatto che i miei film non sono film ultra avvincenti, che comunque non sono quello che voglio fare. Appunto perchè sono film di riflessione hanno bisogno di uscire un po’ per poi rientrare. E’ una mia idea…


-…in fondo danno la possibilità di un’ulteriore momento di riflessione all’interno della storia…Un altro elemento importante che ho notato nei tuoi film è il tema della sofferenza, una sorta di piacere della malinconia, della nostalgia…

…un’opera di riflessione non può che essere malinconica. Del resto il publico che mi sono scelto è quello che adora un certo tipo di cinema…e poi nella vita si può ridere, essere gioviali, ecc. ecc. però l’unica certezza che abbiamo nella vita è che dobbiamo morire. Quindi anche io come persona sono cosciente che la vita non è gioia, assolutamente, anzi. E’ una condizione di grandissimo dubbio…questa cosa merita una riflessione abbastanza accorata. C’è chi lo fa con le religioni, c’è chi lo sublima con la filosofia e chi usa l’arte per esorcizzare questo dramma che abbiamo…


  • Quanto hanno in fluito le location nell’economia della narrazione, elemento anche questo molto importante nei tuoi film? Anche perchè “Unlucky to love you” sembra un film girato in America, mentre invece è girato tutto in Italia…

Questo film è ambientato tutto nel basso Abruzzo e in Salento ed è molto importante. La scelta che faccio delle location è sempre molto accurata, faccio sempre molta pre-produzione. In questo caso ho trovato questa villa che è Villa Nucci a Nardò che mi piaceva molto perchè non volevo una cosa troppo antica che poi non sarebbe stata coerente con il noir, perchè gli indie noir non si potevano permettere le location di “Barry Lyndon”. Per questo giravano molto in luoghi “bassi” come bar, motel, ecc. Quindi ho voluto cercare una villa bella ma senza esagerare troppo. Invece per quanto riguarda il locale ho cercato un locale stile anni Quaranta-Cinquanta dove c’erano esibizioni dal vivo, di jazz soprattutto, e lo abbiamo trovato a Chieti. Le location sono sempre importantissime e spesso sono troppo trascurate in Italia…Odio quando gli scenografi mi dicono “facciamo una scenografia vissuta” e cominciano a buttare cose in giro…No, non è così che mi piace. L’ordine è fondamentale.


  • Ci puoi raccontare cosa stai facendo per quanto riguarda i tuoi progetti futuri?

Si, in questo periodo sono al montaggio di un film molto bello che sarà un ponte fra la sensazione e la riflessione. Un film di sensazione in cui però si torna a riflettere su cose serie. Ci lavoreranno degli attori che sono anche in “Unlucky to love you”. Un film impegnativo perchè ci abbiamo lavorato 45 giorni, un film denso. L’abbiamo girato in Italia con un titolo provvisorio che non ti dico perchè non è definitivo. L’abbiamo iniziato durante il covid e l’abbiamo finito qualche mese fa e ora è in montaggio. Un film molto bello perchè con questa cosa che dopo il covid c’era la ripartenza, questa energia, tutti allora hanno dato il massimo, dai tecnici agli attori…


-…C’è ancora Corinna Coroneo, presenza immancabile, inquietante…

…Si, certo…Anche Truffaut lavorava spesso con gli stessi attori, Anche per me è così. Spero che in futuro si capirà che anch’io cerco di creare un mio piccolo universo dove tutti fanno cose diverse…




a cura di Marcello Cella

giovedì 30 marzo 2023

 


La documentarista piemontese è stata sempre in prima linea nel raccontare le storie degli invisibili. Un ricordo ed una analisi dei suoi lavori a qualche mese dalla sua scomparsa.



Adonella Marena, un granello di sabbia nell’ingranaggio


“invincibile non è chi sempre vince, ma chi non si fa sbaragliare dalle sconfitte.

Invincibile è chi da nessuna disfatta, da nessuna batosta si fa togliere la spinta a battersi di nuovo. Chisciotte che risorge ammaccato dai colpi e dalla polvere è invincibile”

Erri De Luca


E’ difficile raccontare Adonella Marena e la sua opera di documentarista fuori dalle righe utilizzando i metodi tipici della critica cinematografica perchè Adonella è stata per tutta la sua vita anche un’attivista politica che ha sempre voluto raccontare le realtà più nascoste e marginali, i conflitti meno visibili sui media mettendo in gioco tutta sé stessa, il proprio corpo, la propria fisicità, le proprie idee, la propria telecamera. E’ difficile anche perchè, guardando i suoi documentari così ricchi di passione civile, di curiosità partecipata alle vite degli invisibili e alle loro lotte per non soccombere ai pregiudizi e alle trappole del pensiero unico, lo spettatore fatica a riconoscere l’Italia di oggi. Forse il maggior merito dei suoi documentari, è proprio quello di raccontare, spesso in presa diretta, i grandi sommovimenti politici e civili avvenuti in Italia tra la fine degli anni ’90 e la fine del primo decennio del 2000, perchè la memoria di un’altra Italia non andasse perduta nei cupi deliri sovranisti che dominano la politica e la narrazione mediatica odierna. Quindi la passione politica e civile è stata la prima molla della sua opera documentaristica, come anche la capacità di sperimentare linguaggi diversi e di non farsi chiudere in una categoria estetica eccessivamente definita. 

“La mescolanza tra la mia storia, la politica e il desiderio creativo dà origine sia al mio modo di fare cinema sia ai temi ricorrenti nei miei film. Non ho scelto il genere narrativo, l’ho individuato lungo il percorso. Ho sperimentato la fiction, il reportage, il video didattico, il docu-fiction, il documentario creativo. Ma quest’ultimo mi è più congeniale perché mi permette di vivere e raccontare la realtà con uno sguardo più aperto, personale e libero, e uscire dallo schema rigido di un luogo comune che riguarda il documentario, la presunta rappresentazione oggettiva, distaccata, “scientifica” della realtà”.




E in effetti, fin dal suo primo documentario “lungo”, “Okoi e i semi di zucca” (1994) preceduto da una serie di cortometraggi tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 che già nei titoli rivelavano molti dei temi ricorrenti dell’autrice (“Bambine di Palestina”, “Il colore delle differenze”, “Righibè a Torino”, ecc.), il documentario si incrocia con la finzione, pur essendo originato da una storia vera, la costituzione della prima cooperativa di donne migranti in Italia, nel campo della ristorazione. Le vicende, i conflitti e le malinconie della zairese Mamì, della filippina Pace, della marocchina Malika e della siciliana emigrata al nord Rosa si svolgono dentro la cornice di una Torino fredda e indifferente, ma dove già si intravedono i primi semi di un’ostilità che si manifesterà apertamente pochi anni dopo. Una Torino cupa e grigia, attraversata dai fantasmi di un tempo in cui era il centro produttivo più importante d’Italia, che ritorna in “Facevo le nugatine” (1996). Walter Pagliero Valgrand, ex operaio in pensione, si aggira solitario e smarrito fra i ruderi abbandonati dell’ex fabbrica dolciaria Venchi Unica ricordando i tempi in cui essa era affollata di lavoratori che producevano e confezionavano i dolci di marchi famosi come Talmone. Il silenzio e le parole dolenti dell’operaio accompagnano questo viaggio nella memoria e in uno spazio abbandonato al degrado e che verrà abbattuto poco dopo il suo racconto portandosi via, con le macerie, anche i ricordi di persone che a quel luogo hanno dedicato la vita. Mentre le allegre pubblicità pop degli anni Sessanta, i cui filmati sono stati ritrovati dall’autrice proprio all’interno della fabbrica abbandonata, raccontano di un’Italia che non c’è più, l’Italia del boom economico, del consumismo felice e spensierato, di sogni e speranze di un altro tempo, così apparentemente lontano da far dubitare il protagonista del documentario che sia mai esistito. 




“Usciremo un giorno e la vita ricomincerà” è invece l’orgogliosa affermazione che Frida Malan, ex partigiana di Giustizia e Libertà, protagonista de “La combattente” (1998), affida alla sua giovane intervistatrice Ilaria, una studentessa che la cerca per realizzare un lavoro di documentazione per il suo corso universitario. Il tema anche in questo caso è la trasmissione della memoria a chi non ha vissuto i drammatici eventi della Seconda Guerra Mondiale e che si avvicina ad essi con superficialità. Infatti in un primo tempo Frida è reticente con la sua giovane interlocutrice. “Come si fa a dire qualcosa quando c’è tutta una vita da raccontare?”, è la prima cosa che dice a Ilaria. Ma poi lentamente le parole si sciolgono e affiorano i ricordi anche se sono accompagnati dal dolore e dalla paura di non essere capiti. “Tanti quando tornavano non dicevano più niente”, dice Frida, consapevole che per molti “non ricordare era un modo per non soffrire, non ricordare per il timore di non essere capiti”. E qui risuonano le parole disseminate in tante parti dell’opera di Primo Levi sulla difficoltà di parlare e far capire quegli eventi così drammatici a chi non può nemmeno immaginare cosa questo significhi per chi li ha vissuti direttamente. Ma Frida ha reagito al silenzio e all’impotenza e ha fatto della sua vita un momento irripetibile di passione. “Ho vissuto con passione tutto ciò che mi sembrava utile per il mondo futuro”, è il messaggio che Frida consegna ad Ilaria che si aggira pensosa nella periferia della Torino notturna, ravvivata da graffiti colorati che raccontano di altre lotte e di altre passioni alla vigilia di un nuovo secolo che si annuncia ancora pieno di ombre e di domande inespresse. 




Del 1999 è invece il documentario “La fabbrica degli animali” che racconta di un’altra passione di Adonella, quella per gli animali, considerati essere viventi e senzienti al pari degli umani. Il documentario di Adonella è il primo in Italia nella denuncia del trattamento aberrante cui sono sottoposti negli allevamenti intensivi. L’idea nasce dall’incontro della documentarista torinese con un veterinario che le racconta la condizione in cui vivono questi poveri animali, ridotti a macchine da riproduzione, da carne, latte e uova per soddisfare la follia consumistica dei cittadini occidentali. Le immagini terribili di Adonella Marena ci portano dentro i veri e propri lager in cui vengono ridotti gli animali, ma non rifugge da un’analisi storica del fenomeno che nasce e si sviluppa negli anni del boom economico fra gli anni Cinquanta e Sessanta, nel momento di passaggio dell’Italia da un modello di società sostanzialmente ancora rurale e un modello di società industriale, che conduce il nostro paese sulla strada di un consumismo, anche di tipo alimentare, sconosciuto alle generazioni precedenti. La realizzazione degli allevamenti intensivi risponde a questa nuova vorticosa domanda di consumi alimentari e gli animali vengono progressivamente spogliati della loro natura di esseri senzienti per diventare semplicemente macchine, ingranaggi dell’industria alimentare, nutriti a base di mangimi e farmaci pericolosi anche per la salute umana. Il documentario della Marena fa anche piazza pulita del classico argomento a favore di tali strategie produttive, e cioè la loro necessità per debellare la fame nel mondo, dimostrando, dati alla mano, che la carne prodotta in questi impianti-lager ha ben poco a che fare con questa presunta logica redistributiva, ma molto con il profitto di pochi a scapito della maggior parte dei cittadini del pianeta, degli animali e dell’ecosistema. La soluzione, difficile, ma non impossibile, che si deduce da “La fabbrica degli animali” è che solo la dieta vegetariana e lo sviluppo sostenibile possono invertire questa strada distruttiva e autodistruttiva. Nel documentario, efficace, ma sicuramente un po’ didascalico, cominciano a sentirsi gli echi del movimento di Seattle, del cosiddetto movimento No Global o Altermondialista che sfoceranno in Italia nelle drammatiche giornale del G8 di Genova del 2001. 

Gli anni 2000 sono gli anni in cui Adonella Marena lavora sempre più a stretto contatto con i movimenti di contestazione del nostro modello di sviluppo e molte sono le opere che affrontano tematiche politiche e sociali vicine alle rivendicazioni del movimento No Global. E’ del 2000 “Mobilitebio: quando la terra è in vendita”. Infatti il 25 maggio del 2000 a Genova una grande manifestazione si oppone a Tebio, la prima mostra - mercato internazionale sulle biotecnologie. “L’immagine di convegno scientifico e di presunta neutralità (con la quale si vuole informare “correttamente” sul settore della ricerca biotecnologica) si svela come la facciata convenzionale di un obiettivo diverso: offrire una vetrina per le multinazionali del biotech, nate dalle fusioni dei colossi chimico-farmaceutici, che stanno concentrando nelle proprie mani il mercato della cosiddetta “scienza della vita”.  Una rete di associazioni riunite sotto la sigla Mobilitebio organizza quindi una grande manifestazione contro le manipolazioni genetiche a cui partecipano anche alcuni dei protagonisti del successivo G8 di Genova, come le Tute Bianche con l’attivista Luca Casarini e don Andrea Gallo. Lo slogan di tutti è: “Quando la terra è in vendita, ribellarsi è naturale”. La telecamera di Adonella accompagna la manifestazione con interviste ai partecipanti ed entra al suo interno lasciando che siano gli attivisti ad esprimere il loro punto di vista. 





Il documentario successivo di Adonella Marena, “Tute bianche. Un esercito di sognatori” (2002) viene girato subito dopo i giorni del G8 di Genova e racconta uno dei movimenti protagonisti di quei giorni, ma che hanno già una lunga storia di militanza alle spalle, e cioè le Tute bianche di Luca Casarini, che cambieranno nome proprio a Genova autorinominandosi “disobbedienti”. Adonella racconta dall’interno le vicende del centro sociale “Rivolta” di Venezia, nato già negli anni ‘90 tra le fabbriche dismesse del nord est, facendo emergere con naturalezza e senza ideologismi di maniera le storie degli attivisti e le motivazioni della loro militanza. “Sono, dicono loro, “un esercito di sognatori”, armati solo di plastica e di parole, contro la prepotenza di quello che chiamano Impero. Sono i portavoce degli “invisibili”, i fantasmi, quelli che non hanno rappresentanza né diritti”. La documentarista torinese cerca di ricostruire le loro storie ed il loro pensiero anche  utilizzando immagini d’archivio delle loro lotte, come quando si incatenarono sui binari di una ferrovia nel 1994 per non far partire un treno carico di armi diretto in Croazia durante la guerra nella ex Jugoslavia. O come quando, arrivati nel 2000 in Chiapas parteciparono con gli zapatisti alla lunga marcia che li portò a Città del Messico a trattare con il governo messicano. Come in tutte le sue opere l’intento di Adonella Marena è quello di far parlare i protagonisti delle sue storie, a disvelare i loro lati più reconditi senza giudicare a priori. “Tute bianche. Un esercito di sognatori” è quindi un viaggio nei luoghi, nelle azioni, nelle idee e nelle emozioni di questo movimento, così duramente colpito durante i tragici eventi del G8 di Genova nel 2001, per far emergere la profonda verità di uno slogan famoso di quei giorni: “Un altro mondo è possibile”.

Con “M’agradavo vioure ilamoun. (Ipotesi sui giochi olimpici 2006)” (2003), un’espressione che in occitano significa “Mi piaceva vivere lassù”, Adonella Marena torna al documentario d’inchiesta ecologista e racconta con grande acume e amara preveggenza il devastante impatto ambientale delle decine di cantieri e infrastrutture, dei massicci interventi su boschi e reti idriche causati dai lavori per preparare i giochi olimpici invernali di Torino 2006. Le testimonianze degli abitanti di quelle valli denunciano la distruzione dell’ambiente e dell’identità culturale di quelli luoghi in nome del profitto. Luoghi che vengono raccontati con poetica dolcezza dalla musica che risuona di echi lontani dei Lou Dalfin e dai versi di Primo Levi (“Il ghiacciaio” e “Una valle”) recitati dal pittore Vinicio Perugia, luoghi di enigmatici silenzi, spazi di riflessione che contrastano con la frenetica superficialità di politici e tecnocrati che farneticano di una “Torino capitale del divertimento”, una “Torino che non sta mai ferma”, della necessità del “fare in fretta”, mentre i media si genuflettono ai nuovi padroni del vapore censurando ogni voce critica, come nel caso del servizio RAI, mai andato in onda, e ripreso da Adonella, che denunciava le criticità di queste “grandi opere”. 

In questo senso, questo documentario, si lega ad un’altra opera di qualche anno prima, più anomala e fuori dagli schemi, come “Anime di città” (2000), ispirato alle atmosfere di “Blues in 16. La ballata della città dolente” di Stefano Benni, in cui le immagini luccicanti della Torino notturna e glamour dei nuovi ricchi, delle pubblicità automotivanti (“io valgo”) dei nuovi vincenti, dei mega cartelloni pubblicitari della moda e del lusso, le insegne luminose, i manichini delle vetrine dei negozi di abbigliamento, le notizie della Borsa, i vestiti firmati delle donne in carriera, accompagnati dai racconti surreali dello scrittore, raccontano una città sempre più solitaria e angosciata che nasconde la propria irrequietezza esistenziale e il proprio nichilismo consumistico dietro le immagini al neon di una città inesistente.



Gli anni 2000 sono anche gli anni in cui Adonella Marena si avvicina al movimento No Tav in Val di Susa e in cui realizza le sue opere più note “No Tav. Gli indiani della valle” (2005) e “Il cartun d’le ribelliun. Da Venaus a Roma a passo d’uomo” (2008). Il primo racconta i primi 15 anni di lotta degli abitanti della Val di Susa contro la realizzazione della TAV, un’opera inutile e devastante per l’ambiente e per l’identità di quei luoghi, attraverso le voci e le storie di chi combatte in prima persona per difendere il proprio diritto a vivere in quei luoghi senza dover partecipare per forza alla corsa dei vincenti (“E’ necessario correre (…) Gli altri hanno bisogno di correre e tu non vuoi farlo”, afferma significativamente uno degli attivisti No Tav intervistati). Il secondo racconta invece la gioiosa marcia di 800 km degli attivisti No Tav dalla Val di Susa a Roma nel 2006 per contestare la realizzazione dell’opera in questione, ma anche per presentare al governo le istanze di tutti i movimenti di contestazione delle grandi opere (erano presenti anche attivisti No Mose di Venezia, No Offshore di Livorno, No Ponte sullo Stretto di Messina, ecc.). In entrambi i documentari emerge l’interesse affettuoso e curioso al tempo stesso, quasi sempre presente nelle opere della documentarista torinese, per chi è disposto a mettere in gioco tutto sé stesso, il proprio corpo, la propria fisicità per sostenere le proprie idee, la propria causa, e il bene comune anche a rischio della propria incolumità personale. Da Seattle a Genova è emerso spesso questo aspetto nei movimenti di contestazione di carattere politico, sociale o ecologista e Adonella cerca di capire e raccontare le azioni e le motivazioni di questi attivisti che non tracciano mai una linea netta fra il proprio impegno politico e sociale e il proprio vissuto quotidiano. Un modo di essere e di pensare che, nel mondo dei contatti virtuali, artificiali, della socialità a distanza sembra appartenere ad altre epoche, più antiche, lontane, quasi dimenticate. Come se la partecipazione diretta alle azioni ideate e realizzate per cambiare in meglio il mondo fosse diventata improvvisamente qualcosa di esotico, qualcosa che non appartiene più alla nostra cultura sempre più “mediata”. E forse è anche la causa di quella sottile malinconia che spesso emerge, quasi involontariamente, in molti documentari di Adonella Marena. La lotta dei No Tav  contro le Grandi Opere Inutili che tanto piacciono ai politici, ai tecnocrati e alle mafie, raccontata da Adonella, così attuale e così antica allo stesso tempo, diventa quindi il paradigma di un mondo che “deve” correre, sempre e comunque, anche se non sa più esattamente dove andare e perchè lo deve fare, emblematico di una crisi culturale ed esistenziale sottile e non dichiarata, ma che nasconde le crepe sempre più evidenti ovunque il pensiero dominante si presenti come una divinità necessaria, infallibile e senza alternative. 




Fra queste due opere Adonella realizza un docu-drama anomalo ma significativo come “Non mi arrendo, non mi arrendo!” (2006), in cui la regista, a 60 anni dalla Liberazione, porta in scena al Teatro Carignano di Torino, storie personali e collettive di resistenza femminile al nazifascismo. Come lei stessa racconta, si tratta di “madri, ribelli, sorelle, partigiane, allieve, maestre, contadine, operaie, figlie, scienziate, sindacaliste, attrici, registe.....Ognuna racconta la propria resistenza, che è anche resistenza alle mode, alla cialtroneria, alla supercialità, all’opportunismo... “. Una contro storia a più voci su quello che significano parole come lotta e resistenza. E patria.

“Esistono patrie in viaggio, patrie in spalla, portate con sé perchè quelle di origine di sono disgregate. Tutta la nostra epopea di emigranti è stata patria chiusa dentro una bisaccia e imbarcata per terre d’oltremare. Stava in zolle strette intorno alla radice di una vite, in un pugno di semi di basilico. E la loro definizione della parola “patria” era: chella ca te da a mangia’. Perchè se non dà diritto di lavoro e di vita, non è patria, né matria e si è orfani verso terre di adozione”. Con queste parole lo scrittore Erri De Luca introduce il documentario “Lo sbarco” (2011) in cui Adonella Marena, in co-regia con Dario Ferrero, racconta un’altra storia di lotta, di partecipazione attiva e di democrazia diretta, e cioè l’organizzazione e la realizzazione, nel 2010, di un viaggio in nave da Barcellona a Genova di un gruppo di italiani residenti all’estero che, di fronte ai continui episodi violenti di razzismo, corruzione, precarietà nel lavoro, erosione del bene pubblico, espansione del potere mafioso, distruzione del territorio, decide di compiere un atto dimostrativo contro questa pericolosa deriva morale del nostro paese, organizzando, a 150 anni dall’impresa dei Mille di Garibaldi, un’azione analoga ma in senso contrario. Non mille soldati alla conquista del Sud Italia in mano ai Borbone per costruire un’Italia unita, ma mille concittadini decisi a manifestare e a rendere pubblico e partecipato il sogno di un’altra Italia, un paese diverso da quello raccontato dalle cronache di quegli anni. Così la cosiddetta “Nave dei diritti”, sostenuta anche da intellettuali e personaggi dello spettacolo come Dario Fo e José Saramago, Tonino Carotone e Paolo Rossi, salpa significativamente da Tangeri con il suo carico di migranti nordafricani per sostare a Barcellona e poi approdare a Genova, dove, nelle “piazze dei diritti” verrà innescato un dibattito a più voci su come costruire un’altra Italia. All’appello rispondono da molte città d’Europa, e attraverso la rete si incrociano le iniziative. “Nella traversata, condivisa con i cittadini nord africani, si intrecciano testimonianze, incontri e musiche, insieme alle voci che dalla rete portano la loro presenza. Per ricordare i diritti negati, per alimentare idee e sogni. Una Nave dei diritti ma anche un’Arca di Noè su cui imbarcare le esperienze culturali e umane in pericolo di estinzione, una nave dei folli spinta dall’utopia. Una sfida pirata alla rassegnazione che ci circonda. Il documentario vuole proporre uno sguardo sull’Italia di oggi da un punto di vista particolare, quello di cittadini italiani che abitano e lavorano in Europa e che assistono smarriti alla metamorfosi del loro paese. Il loro sguardo speculare mette a confronto due mondi che coesistono in modo stridente oggi in Italia: da una parte una popolazione impaurita dalla crisi economica e sociale, e neutralizzata dal degrado culturale, etico e relazionale, dall’altra i cittadini “resistenti” che desiderano il riscatto civile e umano del loro paese, e la salvaguardia della Costituzione. Faticoso sembra oggi pensare e progettare una risposta, difficile sognare un altro mondo possibile. Allora, attraverso un gesto simbolico forte, un gesto epico e insieme concreto, semplice e sconvolgente, questi cittadini che vedono il proprio paese sempre più lontano, decidono di imbarcarsi nell’impresa possibile di accendere una luce per l’alternativa. All’alba del grande movimento degli indignati che da lì a poco invaderà le piazze”. Il documentario diventa perciò la cronaca partecipata, appassionata, ma a tratti anche malinconica, di questo tentativo utopico di far emergere un’altra Italia possibile. In fondo tutto era partito da Genova e a Genova in qualche modo ritorna, con una circolarità geografica e mentale molto significativa…




Prima de “Lo sbarco”, Adonella torna al suo amato mondo della natura e realizza un altro documentario “Libellule” (2009), delicata opera a meta strada fra lirismo bucolico, impegno ecologista e documentario di divulgazione naturalistica. Le libellule sono gli insetti più antichi, gli abitatori incontrastati delle zone umide che volavano su tutto il pianeta fin dai suoi albori, ma oggi si stanno estinguendo. Il documentario della regista torinese racconta con delicatezza e poesia il mondo di questi antichi abitatori delle paludi e le cause, purtroppo tutte dovute alle azioni umane, della loro progressiva estinzione, dopo aver resistito ai cambiamenti millenari della Terra. 




Gli ultimi anni della cineasta piemontese non sono purtroppo densi di realizzazioni. Ed è in qualche modo una conseguenza della sua coerenza, della sua indipendenza produttiva e tematica, della sua vicinanza alle lotte degli invisibili, di chi non vuole arrendersi alle logiche del pensiero unico. Nell’ultimo cortometraggio “Lunestorte” (2018) Adonella torna ad incrociare il linguaggio documentaristico con quello teatrale in un’opera che ancora una volta racconta un’altra storia di esclusione e di riscatto, quella dei malati mentali dell’ospedale psichiatrico (o manicomio, come si diceva una volta) di Collegno, il più grande d’Italia, aperto nel lontano 1856 e chiuso definitivamente solo nel 1996. “Il film rielabora lo spettacolo teatrale “Storie di Lunestorte” di Rosanna Rabezzana e Mirella Violato, allestito per la prima volta nel 2006 nei grandi spazi dell’ex ospedale psichiatrico di Collegno. Voci, gesti, testimonianze, immagini d’archivio restituiscono un percorso corale di storie vissute tra le mura del manicomio. Il lungo muro che dalla fine dell’’800 rendeva impossibile ogni comunicazione tra interno e esterno del manicomio e manteneva invisibili migliaia di vite, venne aperto nel 1977. La chiusura del manicomio rivelò una realtà drammatica di violenza, degrado e oblio e mise sotto accusa una psichiatria che in quegli anni sarebbe radicalmente cambiata”. La telecamera di Adonella si muove con delicatezza, ma anche con profondo dolore fra i corridoi vuoti dell’ex manicomio, densi di ricordi e di storie angosciose, e i volti delle donne-attrici sul palcoscenico, viaggia in profondità nelle parole di chi pronuncia frasi come pietre, vite perdute come quella di chi, quasi urla al pubblico, “come sarebbe stata la mia vita se a 20 anni non mi avessero rinchiusa?”. Ma il manicomio, anche se chiuso, rischia di tornare nelle gabbie del pregiudizio, della discriminazione e del rifiuto che ancora affollano le menti di chi non sa accettare la diversità. Un monito che risuona nelle parole della voce narrante, Roberta Biagiarelli: “Adesso la porta era stata violentemente e inesorabilmente aperta. Il portone del manicomio più importante, quello di Collegno, era stato aperto a spallate. Distruggere il manicomio non è mai una volta per tutte. E’ un processo che va sempre presidiato, che richiede una cura continua per non ricostruire il manicomio nelle nostre menti, prima ancora che intorno a noi”. 




Adonella Marena ci ha lasciato nel novembre dell’anno scorso. Vogliamo ricordarla con le sue parole, quelle di una documentarista scomoda, impegnata nell’abbattere le barriere spesso artificiose fra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo, mai stanca, come nelle parole dei comandanti zapatisti del Chiapas, di “camminare domandando”.

“Il percorso è stato difficile e controverso, ma il mio retroterra di elaborazione con le donne mi ha dato chiarezza di intenti: la rifIessione del femminismo sui processi di conoscenza, di interpretazione e di rappresentazione del mondo, non più legati solo a parole come razionalità, coscienza, obiettività, ma ad esperienze che inglobavano anche la propria soggettività, il proprio corpo, il linguaggio non verbale o inconscio, mi hanno aiutata a dipanare il dubbio come documentarista: cos’è sinceramente reale se non quello che posso raccontare anche col mio punto di vista e la mia sensibilità? La soggettività non è un limite e lo sguardo delle emozioni e del desiderio non è il tradimento della realtà. Al contrario è l’uso totale della propria testimonianza, della propria presenza nella società. Questa elaborazione è entrata nel mio lavoro di documentarista con gioiosa consapevolezza. Costante, nei miei film è la propensione a dar voce, visibilità, dignità a storie che pur sembrando di “minoranza” o marginalità, rifIettono aspetti inconsueti, stimolanti o anche scomodi della realtà. Cerco di raccontare personaggi e situazioni che possano diventare granelli di sabbia negli ingranaggi di un pensiero unico dominante, perché rivelano pensieri nuovi, o confIitti nascosti, o ottusi conformismi . 

Possono disturbare o smascherare. 

Possono far ricordare. 

Granelli di sabbia l’hanno gettati le migranti di “Okoi..”, con la loro fierezza, cultura, ironia e bellezza, ad allontanare l’immagine del migrante passivo e privo di risorse; la combattente ottantenne, con il rigore, la curiosità e il coraggio inossidabile nel guardare la vita; i disobbedienti delle tute bianche, che smascherano la violenza del potere con la fantasia del corpo; gli indiani valsusini, con la loro lucida determinazione e la pratica tenace di valori in disuso, come il senso del bene comune e della democrazia partecipata. 

Granello di sabbia è anche lo sguardo puro e interrogante del vitello nella fabbrica degli animali, e il silenzio della montagna, violata dal fugace sogno olimpico. Ogni film è un’esperienza speciale, spesso lunga, che mi coinvolge nel tempo con il suo carico di atmosfere, amicizie, antipatie, studio, scrittura, azioni esaltanti o grandi fatiche. Poesia o nottate al freddo. Non è facile entrare e uscire dalle storie, alla fine non le abbandono mai del tutto, mi accompagnano confondendosi con la mia vita”. 



Marcello Cella






Adonella Marena sul web:


Associazione Djanet

http://www.associazionedjanet.it/adonella-marena/


“Okoi e i semi di zucca”

https://www.youtube.com/watch?v=uJZxcf_QYdw


“Facevo le Nugatine”

https://www.youtube.com/watch?v=QbSt2TNWaeU


“La combattente”

https://www.youtube.com/watch?v=WhMIgOvTXek


“La fabbrica degli animali”

https://www.youtube.com/watch?v=XIo-oCq-UJQ


“Anime di città”

https://www.youtube.com/watch?v=7mdkLkMVBsU


“Mobilitebio: quando la terra è in vendita…”

https://www.youtube.com/watch?v=dzTkwZ4W2C8


“Tute Bianche, un esercito di sognatori”

https://vimeo.com/ondemand/tutebianche


“M’agradavo vioure ilamoun”(Ipotesi sui giochi olimpici 2006)”

https://www.youtube.com/watch?v=ZD_NpcbFqik


“NoTav: gli indiani di valle”

https://www.youtube.com/watch?v=BS6WLg5OK0s


“Non mi arrendo, non mi arrendo!”

https://www.youtube.com/watch?v=ZmRGeIR_dwY


“Il cartun d’le ribelliun – Il carretto delle ribellioni.

Da Venaus a Roma a passo d’uomo”

https://www.youtube.com/watch?v=28iAbyWqYkU



“Libellule”

https://www.youtube.com/watch?v=DwLMYCnQ1xg


“Lo sbarco”

https://www.youtube.com/watch?v=lUql9pg5mkY


“Lunestorte”

https://www.youtube.com/watch?v=Knq5vu7-UqI